Storia del Judo
Gli anni che precedono la nascita del Judo si trovavano in un contesto Storico- Politico particolare:
Il 1853 aveva segnato una data importante per il Giappone: il Commodoro Matthew C. Perry, della Marina Militare degli Stati Uniti d'America, entra nella baia di Tokyo con una flotta di quattro navi da guerra (le cosiddette Navi Nere) consegnando a dei rappresentanti dello shogunato Tokugawa un messaggio col quale si chiedevano l'apertura dei porti e trattati commerciali. Il Giappone, che fino a quel momento aveva vissuto in completo isolamento dal resto del mondo (Sakoku), grazie alla Convenzione di Kanagawa, apre finalmente le frontiere agli stranieri. Dopo l'abdicazione dell'ultimo shogun Tokugawa Yoshinobuavvenuta nel 1867, il potere imperiale di fatto riacquisiva il controllo politico del Paese, e contestualmente alla Restaurazione Meiji, la promulgazione dell'editto del 1876 col quale si proibiva il porto del daishō decretava la scomparsa della casta dei samurai.
L'Imperatore Meiji nel 1872. La sua politica di apertura alla cultura occidentale comportò profondi mutamenti nella vita dei giapponesi, tra cui l'accantonamento delle arti marziali tradizionali.
Scrive Troni:
«Agli ex daimyō il governo assegnò titoli nobiliari di varia classe, a seconda della importanza delle loro famiglie ed una indennità pecuniaria proporzionale alle loro antiche rendite, in buoni del tesoro. Venne infine dichiarata la eguaglianza fra le quattro classi dei samurai, contadini, artigiani e mercanti. I corpi armati dei samurai vennero sciolti [...] e si determinò una nuova divisione delle classi sociali che si distinsero infatti in: nobiltà, borghesia, e popolo. Fra le molte riforme [...] bisogna ancora ricordare l'adozione del sistema metrico decimale e del calendario gregoriano».
Vi furono importanti cambiamenti culturali nella vita dei giapponesi dovuti all'assorbimento della mentalità occidentale e naturalmente ciò provocò un rigetto di tutto ciò che apparteneva al passato, compresa la cultura guerriera che tanto aveva condizionato la vita del popolo durante il periodo feudale.
Il jū-jutsu, essendo parte integrante di questa cultura, lentamente scomparve quasi del tutto. Inoltre, le arti marziali tradizionali vennero ignorate anche a causa della diffusione delle armi da fuoco e molti dei numerosi dōjō allora esistenti furono costretti a chiudere per mancanza di allievi; i pochi rimasti erano frequentati da ex-samurai lottatori professionisti pagati appunto per combattere (essendo il loro unico mezzo di sostentamento) e che talvolta venivano coinvolti in episodi di violenza o crimini. Questo influenzò ulteriormente il giudizio negativo del popolo nei confronti del jū-jutsu nel quale vedeva un'espressione di violenza e sopraffazione.
«Per la nuova disciplina che volevo diffondere ho evitato di proposito anche i nomi tradizionali fino ad allora largamente usati, quali "jū-jutsu", "tai-jutsu", "yawara", [...] e ho adottato "jūdō". I motivi per cui ho voluto evitare le denominazioni tradizionali erano più d'uno. A quel tempo molti avevano del jū-jutsu o del tai-jutsu un concetto diverso da come io li intendevo; non pensando minimamente a un beneficio fisico e mentale, li collegavano immediatamente ad azioni violente come strangolamenti, lussazioni, fratture, contusioni e ferite... Era un'epoca in cui le trasformazioni sociali costringevano gli uomini di spada e del jū-jutsu, un tempo celebri, ad affrontare un nuovo modo di vivere, perché venivano perdendo la protezione dei potenti feudatari, tanto che qualcuno di essi, dedicandosi al commercio a cui non era educato, a volte cadeva in una vita misera di vagabondo, mentre altri, per sbarcare il lunario, dovevano esibire le loro capacità senza pudore. Perciò, quando si parlava di arte della spada o di jū-jutsu, nessuno immaginava che si trattasse della preziosissima disciplina che tramandava la quintessenza della cavalleria samurai. Queste cose mi indussero a rinnovare almeno il nome della disciplina, altrimenti mi sarebbe risultato difficile anche trovare degli allievi che vi si dedicassero. »(Jigorō Kanō)
Jigorō Kanō ed il jū-jutsu.
Jigorō Kanō, il fondatore del jūdō.
Il diploma della Kitō-ryū rilasciato nell'ottobre 1883 a Jigorō Kanō.
La storia del jūdō ed il jūdō stesso sono inseparabili dal fondatore, Jigorō Kanō. Nato nel 1860 in una famiglia agiata, nel 1877, sebbene in contrasto con le idee del padre al riguardo, entrò in contatto con il suo primo maestro Hachinosuke Fukuda della Tenshin Shin'yō-ryū tramite il "conciaossa" Teinosuke Yagi anch'egli un tempo jū-jutsuka della stessa ryū.
« Tenshin Shin'yō è una scuola nata da Iso Mataemon unendo i metodi di Yoshin-ryū e Shin-no-shindo-ryū. Nell'infanzia il nome del Fondatore era Okayama Hachirogi, divenuto Kuriyama Mataemon alla maggiore età, e finalmente era stato adottato dalla famiglia Ito ed assunto dal Bakufu col titolo di Iso Mataemon Ryu Kansai Minamoto Masatari. »(Jigoro Kano)
Inoltre, come spiega Sanzo Maruyama, il nome della scuola deriva da «yo, che significa "salice" e shin che significa "spirito". La scuola dello spirito come il salice si ispira alla flessibilità dell'albero», «questa scuola studiava atemi, torae e shime, principalmente in costume di città. Non dava importanza alle proiezioni.»
Nel 1879, Fukuda propose al giovane Kanō di partecipare all'esibizione di jū-jutsu per il Presidente degli Stati Uniti d'America Ulysses Simpson Grant, dove i maestri Iso e Fukuda avrebbero dato una dimostrazione del kata mentre Kanō e Godai Ryusaku del randori. Il Presidente fu molto colpito dall'esibizione e confidò allo stesso Fukuda che avrebbe voluto che il jū-jutsu divenisse più popolare negli Stati Uniti.
Alla morte del cinquantaduenne maestro Fukuda, nove giorni dopo la famosa esibizione, e ricevuti formalmente dalla vedova di Fukuda i denshō (伝承 denshō?, trasmissione, tradizione, leggenda), Kanō divenne il maestro del dōjō.
Dopo poco Kanō si iscrisse al dōjō di Masatomo Iso, discepolo di Mataemon Iso fondatore dello stile, che fu felice di prenderlo come suo assistente. Il maestro Iso insegnava principalmente i kata e gli atemi-waza.
In seguito alla morte del maestro Iso e al raggiungimento della laurea in Lettere presso l'Università Imperiale di Tokyo nel 1881, Kanō si trovò nuovamente alla ricerca di un nuovo maestro. Chiese quindi dapprima al maestro Masaki Motoyama un rispettato maestro della Kitō-ryū, ma questi non essendo più in grado di insegnare data l'età, gli suggerì di fare richiesta al maestro Tsunetoshi Iikubo, amico di Motoyama ed esperto di kata e di nage-waza.
Scrive Watson: «Ci sono molte differenze degne di rilievo tra lo stile Tenshin Shin'yō e lo stile Kitō. Ad esempio, il Tenshin Shin'yō possiede un maggior numero di tecniche di strangolamento e di immobilizzazione rispetto al Kitō, mentre quest'ultimo ha sempre avuto tecniche di proiezione di maggior efficacia.»
«Dopo due anni di studio e allenamento, iniziati attorno al 1878, il mio fisico cominciò a trasformarsi e al termine di tre anni avevo acquisito una notevole robustezza muscolare. Sentivo leggerezza nell'animo e m'accorgevo che il carattere alquanto irascibile che avevo da ragazzo diveniva sempre più mite e paziente e che la mia indole acquistava maggiore stabilità. Non si trattava solo di questo: ero consapevole di aver guadagnato benefici sul piano spirituale. Pertanto, alla conclusione dei miei studi di jū-jutsu, approdai a una mia verità: cioè che questo insegnamento poteva essere applicato a risolvere qualsiasi circostanza in ogni momento della vita, tanto che in me si fece strada la convinzione che tale beneficio psicofisico dovesse essere portato a conoscenza di tutti e non solo riservato a una ristretta cerchia di praticanti.[2] »(Jigorō Kanō)
Il Kōdōkan[modifica | modifica wikitesto]
L'Eishōji, nel quartiere Higashiueno, Taitō di Tōkyō, anticamente conosciuto come Shitaya-kita Inarichō. Il tempio, meta di turisti e judoisti di tutto il mondo, è situato nei pressi dalla stazione Inarichō (Linea Ginza).
Contestualmente all'incarico di docente al Gakushuin, il Prof. Kanō aveva deciso che era giunto il momento di lasciare il suo alloggio studentesco e di fondare un proprio dōjō.
Scrive Barioli: «Nel febbraio 1882 aveva affittato un alloggio nel tempio di Eishō, a Shitaya-kita, nel quartiere Umebori.»
E Watson precisa: «In un quartiere di Tōkyō conosciuto come Shitaya-kita Inarichō, trovò un tempio buddhista chiamato Eishōji che aveva a disposizione varie stanze vuote da prendere in affitto. Dopo aver visitato il tempio e contattato l'abate, un monaco di nome Shunpo Asahi, Jigorō decise di affittare tre stanze: la più piccola la tenne per sé, quella media la destinò all'accoglienza dei suoi allievi, e quella più grande la trasformò in un dōjō con un tatami costituito da dodici tappetini.»
Per inciso, l'Eishōji secondo l'odierna toponomastica di Tōkyō, si trova nel quartiere Higashiueno, Taitō, nelle vicinanze del Parco di Ueno,[12] mentre l'attuale sede del Kōdōkan, costituita da ben otto piani e operativa dal 1958, è ubicata a Kasuga, Bunkyo-ku, sempre nell'area metropolitana diTōkyō.
Il Prof. Kanō riprese allora il termine "jūdō", che Terada Kan'emon, il quinto sōke della Kitō-ryū, aveva coniato quando aveva creato il proprio stile e fondato la sua scuola, la Jikishin-ryū,[13][14] ma che, come lo stesso Kanō fa notare, «esisteva anche prima della Restaurazione Meiji (un esempio ne è la scuola Chokushin-jūdō).»[15] Lo stile venne conosciuto anche come "Kanō jū-jitsu" o "Kanō jū-dō", poi come "Kōdōkan jū-dō" o semplicemente "jū-dō" o "jūdō". Nel primo periodo, venne anche chiamato "jū-jitsu", da cui sono derivate ambiguità persistenti soprattutto all'estero fino agli anni quaranta.
A sostegno della scientificità del metodo Kanō, scrive Shun Inoue:
(EN)
«From the beginning of the Kōdōkan, rather than wedding himself to any one school, Kanō created a new, "scientific" martial art by selecting the best techniques of the established schools of jūjutsu. Initially, he combined wrestling moves and techniques of delivering blows to vital points of the body emphasized in the Tenjin Shin'yō school with throwing techniques that were mainstay of the Kitō school. But Kanō did not limit his research to the techniques of these two schools. [...]In addition to utilizing scientific principles, Kanō pioneered a new mode of instruction and a new relationship between teacher and student. [...]
Kanō, a rationalist, believed in the power of science and wanted Kōdōkan jūdō to be grounded in a scientific thought.
«Of course it was not possible to thoroughly investigate every technique of Kōdōkan jūdō on a scientific basis. But on the whole, because they were fashioned in accord with science, their superiority to older schools was readily apparent.[17] »(Jigorō Kanō)Kanō makes it sound as if the development and diffusion of Kōdōkan jūdō were a "victory of science".»
(IT)
«Dagli inizi del Kōdōkan, invece di legarsi ad una sola scuola, Kanō creò una nuova, "scientifica", arte marziale selezionando le migliori tecniche delle scuole di jūjutsu. Inizialmente egli combinò azioni di lotta e tecniche di colpo ai punti vitali proprie della Tenshin Shin'yō-ryū con le tecniche di proiezione predilette dalla Kitō-ryū. Ma Kanō non limitò la sua ricerca alle sole tecniche di queste due scuole. [...]
In aggiunta all'utilizzo dei principî scientifici, Kanō fu pioniere di un nuovo metodo d'insegnamento e di una nuova concezione di rapporto tra insegnante e allievo. [...]
Kanō, un razionalista, credeva nel potere della scienza e volle che il Kōdōkan judo avesse un fondamento scientifico.
«Ovviamente non fu possibile esaminare a fondo ogni tecnica del Kōdōkan jūdō su basi scientifiche. Ma in generale, poiché esse erano modellate secondo principî scientifici, la loro superiorità rispetto alle vecchie scuole fu subito evidente. » (Jigorō Kanō)Kanō la mette proprio come se lo sviluppo e la diffusione del Kōdōkan jūdō fossero una "vittoria della scienza". »(Shun Inoue)
Riguardo ai membri del primo Kōdōkan scrive ancora Watson: «Il primo allievo di Jigorō nel nuovo dōjō fu Tsunejirō Tomita, un giovane proveniente dalla penisola di Izu, nella prefettura di Shizuoka» e «il secondo allievo ad essere ammesso al dōjō fu un ragazzo di nome Shirō Saigō, che in seguito sarebbe diventato uno dei migliori jūdōka della sua generazione. Tra gli altri allievi che si unirono alla scuola di Kanō vi furono vari colleghi universitari di Jigorō, studenti ed ex-studenti della Gakushūin, e alcuni suoi amici.»
Inoltre i rapporti con il maestro Iikubo non si erano certo interrotti, anzi, Kanō accettava di buon grado le visite del sōke della Kitō-ryū sia dal punto di vista tecnico, in quanto gli allievi potevano apprendere direttamente da Iikubo i particolari del suo jū-jutsu, sia ovviamente dal punto di vista personale per la profonda stima che ognuno aveva dell'altro. Tuttavia il padrone del tempio, il signor Asahi, prete del Jōdo-shū, una delle più antiche sette buddhiste del Giappone,[19] a causa dei rumori dovuti alla pratica, più volte dovette redarguire Kanō e i suoi, finché non si decise di costruire il primo vero e proprio dōjō esterno ai locali del tempio.
Il jūdō quindi, strettamente all'arte del combattimento, venne completamente collaudato durante il periodo a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Il riconoscimento della sua eccellenza pratica e teorica nell'ambito del bujutsu (武術 bu-jutsu?, arti marziali) senz'armi contribuì a salvare molti altri ryū (流 ryū?, scuola, stile) e metodi dall'oblio, nonostante il periodo storico non certamente favorevole. Già nel 1905, infatti, gran parte delle vecchie scuole di jū-jutsu si era integrata con il Kōdōkan contribuendo così allo sviluppo e alla diffusione del metodo Kanō in tutto il mondo.
La filosofia del Kōdōkan jūdō[modifica | modifica wikitesto]
Statua di Jigorō Kanō Shihan all'entrata del Kōdōkan di Tōkyō.
Nel 1882 Jigorō Kanō era docente di inglese ed economia alla Gakushūin.
Dotato di straordinarie capacità pedagogiche, intuì l'importanza dell'attività motoria e dell'addestramento al combattimento, se insegnati adeguatamente per lo sviluppo fisico ed intellettuale dei giovani.
«Il jū-jutsu tradizionale, come tante altre discipline del bu-jutsu, poneva l'obiettivo strettamente ed esclusivamente sull'attacco-difesa. È probabile che molti maestri abbiano anche impartito lezioni sul significato della Via e altrettanto sulla condotta morale, ma, adempiendo il loro dovere di insegnanti, la meta primaria rimaneva quella di insegnare la tecnica.
Diverso è invece il caso del Kōdōkan, dove si dà importanza anzitutto all'acquisizione della Via e la tecnica viene concepita unicamente come il mezzo per raggiungere tale obiettivo. Il fatto è che le ricerche sul jū-jutsu mi portarono verso una Grande Via che pervade l'intero sistema tecnico dell'arte, mentre lo sforzo e i tentativi per definire l'entità della scoperta mi convinsero chiaramente dell'esistenza della Via Maestra, che ho definito come "la migliore applicazione della forza mentale e fisica".»
(Jigorō Kanō)
Quindi, Jigorō Kanō Shihan eliminò dal randori tutte le azioni di attacco armato e di colpo, che potevano portare al ferimento (talvolta grave) degli allievi: tali tecniche furono ordinate solo nei kata, in modo che si potesse praticarle senza pericoli. E infatti, una delle caratteristiche fondamentali del jūdō è la possibilità di effettuare una tecnica senza che i praticanti si feriscano. Ciò accade grazie alla concomitanza di diversi fattori quali l'abilità di uke nel cadere, la corretta applicazione della tecnica da parte di tori, e alla presenza del tatami che assorbe la caduta di uke. Nel combattimento reale, come può essere una situazione di pericolo contro un aggressore armato o non, una tecnica eseguita correttamente potrebbe provocare gravi menomazioni o finanche essere fatale.
Difatti non bisogna mai dimenticare il retaggio marziale del jūdō: il Prof. Kanō studiò e approfondì le nage-waza della Kitō-ryū, le katame-waza e gli atemi-waza di Tenshin Shin'yō-ryū e costituì un suo personale sistema di educazione al combattimento efficace e gratificante, supportato da forti valori etici e morali mirati alla crescita individuale e alla formazione di persone di valore.
Scrive Barioli: «Questa è la diversità di concezione tra il jūjutsu e il jūdō. Dalla tecnica e dalle esperienze del combattimento sviluppate nel periodo medievale, arrivare tutti insieme per crescere e progredire col miglior impiego dell'energia, attraverso le mutue concessioni e la comprensione reciproca.»[23] Questa fu la vera evoluzione rispetto al jū-jutsu che si attuò anche attraverso la formulazione dei principî fondamentali che regolavano la nuova disciplina: seiryoku-zen'yō (精力善用? il miglior impiego dell'energia) e jita-kyō'ei (自他共栄? tutti insieme per il mutuo benessere).
Le qualità sulle quali si poggia il codice morale del fondatore e alle quali ogni judoista dovrebbe mirare durante la pratica e la vita di tutti i giorni si rifanno agli ideali del bushidō: gi (義 gi?, onestà), yū (勇 yū?, coraggio), jin (仁 jin?, benevolenza), rei (礼 rei?, educazione), makoto (誠 makoto?, sincerità), meiyo (名誉 meiyo?, onore),chūgi (忠義 chūgi?, lealtà).
Lo stesso argomento in dettaglio: Bushidō.
Il samurai Miyamoto Musashi, uno dei massimi esempi di dedizione albushidō, mentre impugna due bokken(木剣 spada di legno?).
Per ottenere ciò, secondo gli insegnamenti del Prof. Kanō, è necessario impiegare proficuamente le proprie risorse, il proprio tempo, il lavoro, lo studio, le amicizie, al fine di migliorare continuamente la propria vita e le relazioni con gli altri, conformando cioè la propria vita al compimento del principio del "miglior impiego dell'energia". Da ciò dunque l'alto valore educativo del judo.
Il judo mira a compiere la sintesi tra le due tipiche espressioni della cultura giapponese antica e cioè Bun-bu, la penna e la spada, la virtù civile e la virtù guerriera.
« Il dottor Kanō utilizzava un ideale giapponese molto antico: forza e cultura unite insieme. La cultura senza forza è inefficace, la forza senza cultura è barbarica. Il dottor Kanō esemplificava questo ideale nella sua persona; creò il jūdō, ma fu anche un personaggio di spicco dell'istruzione nazionale, oltre che preside di due importanti licei e autore degli scritti raccolti in tre importanti volumi.
Spiegò che l'ideogramma "bun" (文?) comprendeva i concetti di cultura, raffinatezza, buon carattere, chiarezza di visione e d'intelligenza. "Bu" (武?) significa capacità di combattere, forza di volontà, concentrazione, capacità di mantenere la calma. Divideva questo ideogramma in due parti; [...] La parte in basso a sinistra significa "controllare" o "fermare", la parte in alto a destra era il vecchio carattere che significava "lancia". L'ideogramma, complessivamente, significa "controllare la lancia". Vuol dire che bisogna imparare a usare la lancia, non allo scopo di attaccare, ma per "controllare la lancia" con cui si viene attaccati. Questa doveva essere la base fondamentale della forza bu che si ottiene praticando il jūdō o altre arti marziali.[24] »
(Trevor Leggett)
Il judo nel XX secolo e agli inizi del XXI secolo[modifica | modifica wikitesto]
Sviluppo del judo a livello mondiale[modifica | modifica wikitesto]
Il jūdō nei primi anni del Novecento conobbe una straordinaria diffusione in Giappone e parallelamente iniziò la sua diffusione nel resto del mondo grazie a coloro che avevano modo di entrare in contatto col Giappone, principalmente commercianti e militari, che una volta apprese le tecniche di base lo importarono poi nei loro paesi d'origine. Non meno importante fu la venuta in Europa intorno al 1915 di importanti maestri giapponesi, allievi diretti di Jigoro Kano, che diedero ulteriore impulso allo sviluppo del jūdō, tra cui Gunji Koizumi in Inghilterra nel 1920 e Mikonosuke Kawaishi in Francia.
In Italia le prime testimonianze si riferiscono ad un gruppo di militari appartenenti alla Regia Marina i quali nel 1905 tennero una dimostrazione di "lotta giapponese"[25] davanti al Re d'Italia Vittorio Emanuele III. Gli ufficiali Moscardelli e Michele Pizzolla, in servizio a Yokohama ottennero, secondo quanto contenuto negli archivi della Marina, il 1º dan di jūdō già nel 1889. Bisognerà però aspettare la fine degli anni dieci perché si incominci a parlare di "jūdō", grazie all'opera di un altro marinaio, Carlo Oletti, che diresse i corsi di jūdō per l'Esercito istituiti appunto nel 1920. Fino al 1924 il jūdō in Italia resterà confinato nell'ambito militare, allorquando fu costituita laFILG (Federazione Italiana Lotta Giapponese), assorbita poi nel '31 dalla FIAP (Federazione Italiana Atletica Pesante).
Nascita del Brazilian Jiu-Jitsu[modifica | modifica wikitesto]
Il maestro Mitsuyo Maeda.
Lo stesso argomento in dettaglio: Brazilian Jiu-Jitsu.
Come appendice del Kodokan Jūdō, negli anni venti, il maestro Mitsuyo Maeda portò i fondamentali del ne-waza oltreoceano insegnandoli a Carlos Gracie e Luis França. Il Brazilian Jiu-Jitsu divenne poi un'arte marziale a sé stante attraverso sperimentazioni, pratica e adattamenti ad opera del maestro Hélio Gracie e del fratello Carlos.
Morte di Kanō e secondo dopoguerra[modifica | modifica wikitesto]
Jigorō Kanō morì nel 1938, in un periodo in cui il Giappone, mosso da una nuova spinta imperialista, si stava avviando verso la seconda guerra mondiale. Dopo la disfatta, la nazione venne posta sotto il controllo degli USA per dieci anni e il jūdō fu sottoposto ad una pesante censura poiché catalogato tra gli aspetti pericolosi della cultura giapponese che spesso esaltava la guerra. Fu perciò proibita la pratica della disciplina ed i numerosi libri e filmati sull'argomento vennero in gran parte distrutti. Il jūdō venne poi "riabilitato" grazie al CIO di cui Jigorō Kanō, primo membro asiatico[26], fece parte quale delegato per il Giappone.
Il judo olimpico e la nascita dei movimenti tradizionalisti[modifica | modifica wikitesto]
A partire dal dopoguerra, con l'organizzazione dei primi Campionati Internazionali e Mondiali, e successivamente con la sua inclusione alle Olimpiadi del 1964, il jūdō si è sempre più avvicinato allo sport da combattimento e alle discipline di lotta occidentali, distaccandosi lentamente dalla tradizione tanto da assumere un'identità propria come pratica sportiva a sé stante.
Nazioni per numero di judoka qualificati ai Giochi Olimpici di Pechino 2008.
Pittogramma olimpico del Jūdō.
Anche le metodologie di insegnamento e di allenamento sono mutate di conseguenza e difatti si è cominciato a privilegiare la ricerca del vantaggio minimo che permette di vincere la gara, a discapito della ricerca della tecnica magistrale che sì attribuisce la vittoria immediata ma che al contempo espone l'atleta ad un maggiore rischio di subire un contrattacco. Tale percorso è stato possibile utilizzando tecniche derivate dalla lotta libera che per efficacia in gara e affinità biomeccanica ben si uniscono alle tecniche tradizionali del jūdō pur tradendone la vocazione e la genealogia marziale.
Tale risvolto, inevitabile, si è acuito con l'entrata in scena negli anni ottanta degli atleti dell'ex URSS, spesso esperti di sambo, lotta che, epurata delle tecniche di colpo, ben si presta ad un confronto agonistico e all'integrazione col jūdō.
Altro notevole impulso all'espansione del judo si è avuta nel 1988 in concomitanza dei Giochi Olimpici di Seul dove il judo femminile entra come sport dimostrativo, e poi ancora nel 1992 in occasione dei Giochi Olimpici di Barcellona dove il judo femminile viene incluso definitivamente nel programma olimpico.
In conseguenza di ciò, tuttavia, negli anni si è sviluppata la tendenza a privilegiare un tipo di insegnamento che metta in condizione l'allievo-atleta di guadagnare immediatamente punti in gara, prediligendo talora posizioni statiche assolutamente contrarie alla filosofia jūdōistica classica. Inoltre, una delle conseguenze di tale impianto didattico è la scarsa considerazione degli aspetti educativi e formativi della disciplina, il che è spesso indice di scarsa preparazione dell'insegnante, che non comprende la necessità di fornire un'adeguata base tecnica e morale all'allievo prima di focalizzarsi sulla pratica agonistica.
« Come ripeto ogni volta, il judo è una disciplina concepita come Grande Via, ossia universale. Esso permette di graduare l'insegnamento secondo la necessità e l'interpretazione personale. Può essere concepito come bujutsu, può costituire un'educazione fisica, interessare la coltivazione mentale e morale, fino a permettere l'applicazione della capacità acquisite al vivere quotidiano. Diverso è invece il caso degli sport agonistici, che rappresentano un genere di attività fisica dedicato essenzialmente al risultato di vittoria-sconfitta, anche se l'allenamento ad essi, a patto che sia eseguito in modo corretto, porta un giovamento sul piano fisico e mentale e quindi può risultare efficace e utile, cosa di cui nessuno discute.
Fatto sta che la differenza è enorme: mentre negli sport competitivi l'obiettivo si confina nell'ambito ristretto di ricercare la vittoria, quello del judo propone una finalità ampia e complessa, tanto che possiamo definire gli sport competitivi come un'applicazione parziale dell'obiettivo in cui si riconosce la disciplina del judo. Dunque è plausibile, anzi lecito, interpretare il judo anche nell'accezione agonistica e competitiva, anche se questo rappresenta un genere di allenamento che da solo non porta al compimento dell'obiettivo vero e proprio della disciplina. In altre parole: è vero che bisogna riconoscere nell'esigenza dei tempi l'istanza del judo come sport da competizione, tuttavia senza dimenticare nemmeno per un attimo quale ne è il significato e la vera funzione.[27] »
(Jigorō Kanō)
Il maestro Nicola Tempesta nel 1966. Oggi 8º dan, è stato il primojudoka italiano a vincere la medaglia d'oro ai Campionati Europei nel 1957.
Nel 1974 la FIAP viene assorbita dalla FILPJ, (Federazione Italiana Lotta Pesi Judo), che a sua volta, inglobando anche il karate, cambierà denominazione in FILPJK (Federazione Italiana Lotta Pesi Judo Karate) nel 1995. Nel luglio del 2000 l'Assemblea Nazionale decide di scindere la FILPJK in FIJLKAM (Federazione Italiana Judo Lotta Karate Arti Marziali) e FIPCF (Federazione Italiana Pesistica e Cultura Fisica).
In Italia particolare merito spetta, per la divulgazione del jūdō e per la costituzione in organizzazione federale, al Maestro Benemerito[28] Tommaso Betti Berutto, autore del testo – usato come riferimento da almeno due generazioni di insegnanti tecnici italiani, ma non certo indenne da gravi imperfezioni – "Da cintura bianca a cintura nera", al Maestro Benemerito Giovanni Bonfiglio, pioniere del jūdō e delle arti marziali in Sicilia e Calabria già dal 1946, e all'Avv. Augusto Ceracchini, cinque volte Campione d'Italia e co-istitutore dell'Accademia Nazionale Italiana Judo[29], al Maestro Benemerito Nicola Tempesta, 8º dan, padre della "scuola napoletana" di jūdō, nove volte Campione d'Italia e primo italiano Campione d'Europa, e al Maestro Cesare Barioli, autore di importanti testi sul jūdō sia di carattere tecnico, sia come metodo educativo e formativo.
Ed è proprio grazie all'esempio del maestro Cesare Barioli, in disaccordo con la politica federale incentrata esclusivamente sulla promozione del judo sportivo, che dalla fine degli anni settanta, allo scopo di riaffermare il valore tradizionale del judo, si sono costituite associazioni sportive e culturali che tendono a far rivivere i principi espressi dal Fondatore, quantunque anch'esse si dedichino all'attività agonistica. Tali associazioni sono riunite all'interno di diversi enti di promozione sportiva riconosciuti dal CONI ed associazioni sportive senza scopo di lucro; tra di esse le più importanti sono: AAdJ, Nihonden Judo®-ACSI,AICS, AIJ, AISE, CSEN, CSI, CUS, FIJT, UISP, ecc.
In Giappone nel 2006 ha suscitato grande scalpore l'intervento del maestro Yasuhiro Yamashita, 8° dan del Kōdōkan, dal titolo "In relazione al Judo Renaissance", nel quale l'enfasi è su un maggiore e più efficace impegno da parte delle più importanti istituzioni mondiali nella promozione del judo come metodo educativo anziché soltanto come sport.
« Se il Judo diverrà in ogni Nazione una forma di formazione e sviluppo della persona, penso che la Educazione umana potrà avere un avanzamento. Stiamo portando avanti il progetto del "Judo Renaissance" con questo spirito, ci siamo impegnati concretamente fino a questo punto.[31] »(Yasuhiro Yamashita)
Naturalmente nella sua globalità tale movimento tradizionalista non deve essere concepito come antonimia della pratica sportiva, bensì come complemento fondamentale a quest'ultima. Come scrive lo stesso Jigorō Kanō: «Anche nel periodo antico esistevano maestri che impartivano nozioni di tipo etico oltre che tecnico: si trattava di esempi illuminati ma che, tenendo fede al loro impegno di maestri, dovevano necessariamente privilegiare la tecnica. Nel jūdō invece gli insegnanti devono percepire la disciplina soprattutto come educazione, fisica e mentale.» Mentre invece, «per coloro che si dimostrassero particolarmente portati alla competizione è lecito interpretare sportivamente la disciplina, purché non si dimentichi che l'obiettivo finale è ben più ampio.»